
Sta per arrivare l’onda del Residuo zero. Molti segnali vanno in quella direzione. Oggi in Italia, seppur ancora in modo pionieristico, si sta affacciando un nuovo approccio che va incontro alle esigenze dei consumatori e piace ai retailer: il residuo zero certificato. Il vantaggio è arrivare più agevolmente al risultato con un prodotto che abbia un claim comprensibile al consumatore. E con un costo a scaffale inferiore al biologico. In definitiva va considerato una scorciatoia a favore del consumatore (ma che non tutela l’ambiente come il bio)? Oppure è realmente una via più facilmente percorribile, con maggiore appeal rispetto all’agricoltura convenzionale o integrata?
Il residuo zero: prodotti totalmente clean
Coldiretti ha più volte ricordato che il prodotto made in Italy garantisce la massima sicurezza alimentare. Molto più di quello comunitario o extracomunitario, come evidenzia una ricerca dell’Efsa relativa alla presenza di pesticidi rilevati sugli alimenti. Il numero di prodotti agroalimentari nazionali con residui chimici irregolari – ha sottolineato l’associazione – è dello 0,8%. Molto più basso di quello della media Ue, 1,3%, o di Paesi extracomunitari, 5,5%. Ma il residuo zero risponde a una domanda di maggiore qualità. E offre un prodotto completamente clean. Per residuo zero si intende, infatti, la garanzia, sull’alimento oggetto di certificazione, che non ci siano fitofarmaci di sintesi oltre il limite di rilevabilità analitica. È un claim non disciplinato da normative nazionali o europee. Il riferimento è a standard privati, che generalmente determinano come soglia 0,01 ppm. Ovvero il limite di rilevabilità.
Ma tutela l’ambiente?
Il fine giustifica i mezzi. Ma c’è chi avanza dubbi su questo sistema, se paragonato all’agricoltura biologica che è disciplinata dall’Ue e guarda anche alla tutela ambientale. “Nella produzione biologica – spiega – il focus è sulla salvaguardia e sull’aumento della fertilità del suolo, sulle rotazioni e su scelte agronomiche appropriate; su rinaturalizzazione degli habitat, tutela della biodìversità, benessere animale. Si tratta della fornitura alla collettività di ‘beni pubblici’ – fa notare – che l’Unione europea riconosce al settore biologico nel reg.834/2007. E senza residui di sostanze chimiche di sintesi, in un quadro di controlli pubblico. La produzione a residuo zero – obietta – dà al consumatore prodotti senza residui di sostanze chimiche di sintesi ma in un quadro di controlli privato: si perdono i ‘beni pubblici’.
Gli stessi dubbi vengono avanzati da Paolo Carnemolla, segretario generale di FederBio. “Il regolamento europeo sulla produzione biologica recita che esplica una duplice funzione sociale. Provvede, da un lato, a un mercato specifico che risponde alla domanda di prodotti biologici da parte dei consumatori; dall’altro, fornisce al pubblico beni che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale. Si tratta quindi di un valore aggiunto che va oltre la personale tutela della salute del consumatore. Il residuo zero – fa notare – non necessariamente riduce in maniera significativa l’impiego delle sostanze attive in agricoltura e quindi il loro impatto”.
Una scorciatoia o un’evoluzione dell’agricoltura integrata?
A tutt’oggi si può fare residuo zero anche con agricoltura convenzionale: conta alla fine il risultato, al di là di come lo si raggiunga. Indubbiamente un impegno meno gravoso e poco attento alla collettività. Ma si cercano vie più “responsabili”. “Noi abbiamo scelto di certificare il residuo zero a condizione che le aziende assicurino un impegno alle spalle – spiega Maria Chiara Ferrarese, vicedirettore e R&S executive manager di Csqa –. Chiediamo il pieno coinvolgimento della fase agricola, una valutazione attenta e consapevole delle scelte in campagna: progettare il sistema di gestione del residuo zero, valutare i rischi, definire un protocollo di coltivazione e di monitoraggio analitico della conformità, gestire il tema delle derive con un piano di gestione ad hoc.
Sono diversi anni – continua Maria Chiara Ferrarese – che certifichiamo il residuo zero in abbinamento alla produzione integrata. La certificazione ha valenza triennale e prevede attività di sorveglianza annuali (audit e controlli analitici). Il sistema contribuisce a un innalzamento culturale delle aziende agricole. Dà attenzione alle tecniche di coltivazione al momento di raccolta, utilizza sostanze naturali, impone maggiori restrizioni sulla scelta dei prodotti fitosanitari che residuano di meno, con lo scopo di arrivare al risultato. Esistono tuttavia – fa notare – diversi standard volontari certificabili in materia di residuo zero. Sarebbe opportuno che i vari organismi di certificazione operassero nell’ottica di assicurare lo stesso approccio per garantire e certificare il residuo zero attraverso l’impiego di standard volontari equivalenti (stesse regole per tutti). “L’esistenza di certificazioni quali 11233, SQNPI, Bio o GloblGap presuppone una capacità dell’azienda di governare i processi di produzione in relazione alla gestione e alla scelta dei fitofarmaci – aggiunge Alessandro Mattiazzi, Responsabile Schema Csqa –: queste aziende avranno presumibilmente più facilità ad approcciarsi alla certificazione residuo zero”.
Eppure anche sull’agricoltura integrata, che ormai è quasi uno di standard nella gdo, se si va a vedere quello che chiedono i maggiori retailer, non mancano perplessità. “L’agricoltura integrata nei suoi disciplinari prevede l’uso anche di dozzine di sostanze, anche classificate molto tossiche per gli organismi acquatici con effetti a breve e lungo termine – fa notare Pinton –. Un buon esercizio è leggere i disciplinari volontari delle Regioni. Se il residuo zero si riduce alla scelta di principi attivi a degradazione rapida – sottolinea – non si differenzia di molto. E comunque, per quanto riguarda l’impatto ambientale, non può essere paragonato alla produzione biologica”.
Un’ulteriore barriera commerciale?
L’iniziativa pioneristica dell’Italia è indubbiamente figlia dell’innovazione sulla sicurezza che il nostro Paese esprime. In realtà chi più crede a questa rivoluzione è la Francia. Lì è nato anche un collettivo, Nouveaux Champs, con 60 aziende, 5000 produttori, un peso di oltre il 21% della produzione nazionale totale di frutta e verdura. E tra questi sarebbero a centinaia quelli in procinto di produrre specie vegetali a residuo zero. Ma questa ulteriore certificazione, se divenisse standard, potrebbe creare qualche problema a livello di scambi. “Se diventasse norma – fa notare Carnemolla – rischierebbe di diventare un’ennesima barriera commerciale. Ma non appare possibile, considerata la legislazione vigente in Ue e in ambito Wto. Anche perché bisognerebbe standardizzare i metodi di analisi e i limiti analitici”.
“Per ora il residuo zero è semplicemente un’ulteriore segmentazione del mercato, non l’effettivo standard – afferma Pinton –. E non potrà mai diventarlo per la generalità dei prodotti, dato che importiamo commodities da tutto il mondo, anche da Paesi tecnologicamente e strutturalmente assai diversi da quelli europei, che pure sono diversi tra loro”.
I vantaggi per l’agricoltura 4.0
C’è però anche un altro lato della medaglia. La certificazione residuo zero potrebbe dare appeal ai prodotti coltivati in idroponica o aeroponica. Tecniche che rappresentano il futuro, visto che consentono un forte risparmio idrico in assenza di utilizzo di pesticidi. E che sono già oggi il presente per alcune colture, pomodori, piccoli frutti, verdure a foglia, erbe aromatiche.
Un pungolo per il bio?
L’agricoltura bio tollera pesticidi naturali come le piretrine o metalli pesanti come il solfato di rame. Quando il consumatore comprenderà che il bio non è completamente a residuo zero continuerà a comprarlo? O alimenterà una terza via che lo è effettivamente? Il residuo zero potrebbe alla fine essere anche un pungolo. E aiutare il settore a dare maggiore trasparenza ai consumatori su certe metodologie non proprio green o a stimolare al cambiamento. A cominciare dall’utilizzo di rame, lecito e indispensabile per trattare funghi e batteri, ma pur sempre metallo pesante non degradabile nel terreno. L’Ue ha recentemente fissato nuove restrizioni e lo ha inserito in una black list, in attesa di trovare alternative a causa delle sue caratteristiche di persistenza, bioaccumulo e tossicità segnalati dall’Efsa. Ma la questione è pratica: il mondo bio non ci sta a passare per ideologico. “Il consumo ‘ideologico’ da alcuni anni è già stato sorpassato da un consumo consapevole, che ha fortemente trainato la crescita del mercato del biologico a partire dal 2008 – rileva Carnemolli –. Se questo tipo di consumo si sta stabilizzando è anche in funzione del cambio generazionale”. “Faccio fatica a considerarlo un fenomeno ideologico – nota Pinton –. Eravamo poco più di 4 mila aziende nei primi anni 80: ora siano 80 mila solo in Italia. Anche i grandi brand hanno avviato linee biologiche, i consumatori sono milioni ed esportiamo in tutto il mondo”. Il mercato del bio in Italia vale circa 3,5 miliardi di euro. Il peso è ancora limitato: intorno al 4% rispetto al totale alimentare italiano. Ma la crescita è ininterrotta da dieci anni: secondo i dati di Nomisma nel 2018 è stata dell’8%. Bisognerà anche vedere come procederà l’iter legislativo per due provvedimenti fondamentali, la revisione del Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari e l’approvazione della nuova proposta di legge sul bio.
Residuo zero tra app e device
Il glifosato è stato forse il cavallo di Troia per fare arrivare al consumatore la questione fitofarmaci. Un po’ come lo è stato l’olio di palma per gli ingredienti “cattivi”. L’etichetta clean è destinata in futuro a giocare un ruolo sempre più decisivo tra i driver d’acquisto, soprattutto alla luce della food tech revolution che porta sul mercato strumenti per una decisione autonoma in fase di acquisto. L’edizione 2019 della Ewg’s Shopper’s Guide to Pesticides in Produce, realizzata da Ewg (Environmental Working Group), una Ong molto seguita negli Usa, ha stroncato il kale, un superfood amatissimo in quel Paese (a ottobre si celebra la giornata nazionale). È risultato a sorpresa uno dei prodotti ortofrutticoli più contaminati dai pesticidi negli Stati Uniti. La stessa diffonde una app che valuta oltre 120 mila prodotti alimentari e per la cura personale. Ma non ci sono solo guide e app che allertano sui residui da fitofarmaci. In futuro si dovrà fare i conti anche con i device portatili che in tempo reale informano il consumatore sulla presenza o assenza di contaminanti.
“Nella tecnologia sensing e biosensing (sensori e biosensori) risiede la risposta clean per il cibo sostenibile e sicuro del futuro – afferma Mariateresa Russo, professore di chimica degli alimenti dell’Università di Reggio Calabria e responsabile del Food Chemistry, Safety and Sensoromic Laboratory (FoCuSS Lab) –. Il rischio ‘zero’ rimane, comunque, un obiettivo oggi non raggiungibile seppure la comunità scientifica sta compiendo grossi sforzi in tal senso e per lo sviluppo di strumenti in grado di rivelare, in tempo reale, eventuali contaminazioni. Sono in fase di studio device e connesse app, alcune delle quali in avanzato stato di testing. Sono basati su diverse tecnologie che saranno di certo di grande supporto negli acquisti dei consumatori sempre più esigenti e consapevoli.
Ma l’obiettivo residuo zero non potrà essere raggiunto – fa notare la ricercatrice che ha coordinato un progetto di ricerca industriale nazionale sullo sviluppo di sensori integrati negli imballaggi dei prodotti alimentari per dare trasparenza in etichetta come composizione nutrizionale e di residui – se non ci sarà una seria assunzione di responsabilità da parte dell’intera filiera agroalimentare. Anche alla luce della circostanza che l’approccio sino a oggi utilizzato, focalizzato sul rilevamento del singolo contaminante, non tiene conto dell’effetto, molto più dannoso, delle miscele di contaminati presenti nei cibi. Recentissima, dopo alcuni anni di studio, è la pubblicazione dell’Efsa delle linee guida per valutare quello che è noto come ‘effetto cocktail’ dei contaminanti sulla salute”.